Pinacoteca Tosio Martinengo
Quadreria Tosio Martinengo
Raffaello Sanzio, il Moretto, Vincenzo Foppa, il Romanino, Gerolamo Savoldo, lo scultore Canova sono solo alcuni dei grandi artisti in esposizione. Quello che non ci si aspetta visitando la Pinacoteca Tosio Martinengo è che la bellezza esploda in queste sale con tutta la sua forza, con un fragore ed un boato così potenti da spalancare le finestre di ogni casa, da rendere silenzioso tutto ciò che prima faceva rumore.
Il 17 marzo 2018, dopo quasi 10 anni di lavori, ha riaperto al pubblico la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. “La bellezza salverà il mondo”, diceva Dostoevskij, e mai come adesso, in Italia, c’è bisogno di arte e di una realtà museale come questa. Potrebbe essere considerata, da chi ancora non l’ha visitata, un piccolo museo, in una piccola città, in una piccola nazione. Ed invece, all’interno di queste opere e di questo percorso si nascondono molti dei più grandi nomi della pittura mondiale.
Ogni sala è una sorpresa, da quella sui ritratti alla stanza bucolica, dai dipinti di persone ricche e colte alla povera gente; c'è chi non sente, chi non parla, chi non vuol vedere. Per chi ama l’arte ed ha avuto la fortuna di viaggiare per il mondo non può non ritrovare qui la stessa atmosfera, unica e magica, di altri famosi musei europei, come la National Gallery di Londra o il Louvre a Parigi. Ogni quadro si potrebbe guardare per ore, per capirne le sfumature, le allegorie, i significati, la perfezione dell’esecuzione e il messaggio che ogni artista vuole comunicare a chi guarda la sua tela. Così l’arte diventa viaggio, condivisione, discussione, una miccia che accende gli animi e la fantasia, allora come adesso.
Ritratto di Paolo Tosio
In omaggio al benefattore, colui che donò la collezione al Comune, per prima cosa all’ingresso si trova il ritratto di Paolo Tosio del pittore bresciano Luigi Basiletti. Il Conte viene qui raffigurato con alcuni oggetti emblematici dei suoi interessi: un libro di Dante nella mano, dei cammei, una cartella e due medaglie (oggetti poi passati ai Musei). Il dipinto è del 1843 e rappresenta il collezionista a 68 anni, poco prima della sua scomparsa.
Qui si seguito illustriamo brevemente alcune delle opere esposte in sala tra le più celebri:
San Giorgio e il drago
Opera importantissima rimasta tuttora anonima. Risente di un linguaggio artistico medievaleggiante e questo lo si vede nella figura allungata e diafana della Principessa, ma molto elegante come se fosse la principessa di una corte del gotico internazionale. Il Santo è a cavallo di un destriero alquanto sproporzionato. Balza subito all'occhio che siamo di fronte ad un’opera polimaterica; si tratta infatti di una tempera su tavola con però il drago che è realizzato a sgraffito, cioè ha il fondo oro, sopra rivestito di tempere, e poi graffiato con delle punte per far riemergere le decorazioni in oro sopra. E tutta l’armatura del cavaliere e la bardatura del cavallo è in pastiglia di gesso e poi rivestita. È probabile che la principessa indossasse un gioiello vero perché si vede in corrispondenza del collo un segno tappato. Forse c’era una pietra preziosa. Da notare lo sfondo, con un’architettura tipicamente medievaleggiante e soprattutto il fondo oro che ci denuncia un’epoca ancora legata agli stilemi raffinati della cultura gotica.
La Pala della Mercanzia
Questa pala fu una delle ultime opere del Foppa datata fra il 1505 e 1510. Foppa morirà intorno al 1515 a circa 90 anni. La pala rappresenta la Madonna e il Bambino con i Santi Faustino e Giovita e si chiama pala della mercanzia perché come racconta la scritta apposta nel tardo cinquecento l’opera fu tolta da un luogo scuro per essere collocata nella sede della mercanzia, l’Università dei Mercanti che si trovava in corso Mameli. Non si sa quale fosse questo luogo oscuro da cui la tela arrivava, forse la chiesa di San Faustino in riposo, ma le ultime ipotesi dicono che forse questo luogo oscuro era la cripta della chiesa di San Faustino maggiore. Le due piante dipinte sono simboliche, il melograno rappresenta il sacrificio (perché si apre ed è rosso come il colore del sangue), il fico rappresenta la dolcezza della sapienza divina, ed è un motivo iconografico tipico della pittura veneta del Cinquecento. Foppa qui ha raggiunto un tale livello di perfezione formale e di astrazione per cui sono necessari pochissimi elementi per costruire un’opera di un equilibrio incredibile. Le due finestre lasciano entrare una luce che filtra dalla sinistra del quadro e la luce serve per scolpire, per modellare le figure, i due Santi stanno ricevendo rispettivamente dalla Madonna e dal Bambino la palma del martirio, sono ambientati in un cubo prospettico perfetto in sé. Notare dietro la schiena della Madonna il panno steso e che intuiamo essere stato piegato fino a due minuti prima perché ci sono ancora i segni delle piegature (Foppa gioca col colore e con la luce per suggerire il senso delle pieghe), la Madonna è diventata una specie di trono essa stessa per il Bambino, con una corporatura molto forte che accoglie il figlio. Interessante il tappeto orientaleggiante, segno che l’artista conosceva questo tipo di tappeti. Osservando il pavimento si vede che le linee che costituiscono il reticolo delle diverse mattonelle vanno verso lo stesso punto verso il quale sono direzionate le linee della parte superiore (soffitto e baldacchino) e le linee convergono nel punto di fuga che sta al centro del quadro tra il Bambino e la Madonna. Infine, si noti, che Faustino e Giovita riportano i loro nomi nelle rispettive aureole.
Lo Stendardo di Orzinuovi
Il S. Sebastiano di Foppa è un corpo umano con precise caratteristiche che lo avvicinano a una rappresentazione più realistica dell’individuo. I corpi realizzati dagli artisti del Rinascimento sono verosimili, non subiscono deformazioni, irrigidimenti, allungamenti, accorciamenti ecc. È l’ultima opera del Foppa datata 1514. Lo stendardo gli era stato commissionato dal Comune di Orzinuovi per scongiurare un’epidemia di peste. Era uno stendardo processionale, che ha poi avuto un destino curioso perché fu ritrovato come materiale di sostituzione di un vetro rotto, era diventato la chiusura di una finestra in una chiesa di Orzinuovi. È dipinto si due facce per poterlo vedere da entrambi i lati durante la processione. Su un lato si vede S. Sebastiano al centro, S. Rocco a sinistra e a destra S. Giorgio e il drago. La caratteristica fondamentale di quest’opera è che i corpi sono diventati dei corpi reali, umani. Il corpo di S. Sebastiano è molto caratterizzato dal punto di vista anatomico e anche per quanto riguarda il colore. Il grigio, la luce perlacea e argentea è tipica non solo del Foppa, ma di tutta la scuola pittorica del Rinascimento bresciano.
Santa Caterina d’Alessandria e San Bernardino da Siena
È il verso dello stendardo di Orzinuovi del Foppa. Di nuovo si trova il sistema del baldacchino che costituisce un quadro prospettico molto rigoroso e geometrico. Interessante è l’insieme delle nubi che stanno a destra e a sinistra del baldacchino, a simboleggiare che questa è una pittura atmosferica che coglie l’evento nell’attimo in cui si realizza. I volti grigi che vediamo oggi nei quadri del Foppa non sono ovviamente voluti, ma andrebbero immaginati diversamente. Da studi recenti si sa che il Foppa preparava un fondo grigio e poi terminava i volti con un rosa tenue e delicato che conferiva al volto un aspetto raffinato. Chiaramente siccome il rosa era solo un delicato strato superficiale, era sufficiente una pulitura troppo profonda o un restauro maldestro per asportarlo.
La Natività
L'autore fu Lorenzo Lotto. Da notare che la Madonna è inginocchiata dentro la cesta dove si trova il Bambino. Bello il particolare del bambino che gioca con l’agnellino. Tutti gli sguardi dei personaggi sono rivolti verso il nodo centrale del bambino tranne l’angelo tra la testa dei due personaggi che invece guarda verso di l'osservatore e lo introduce alla scena. San Giuseppe è in posa scomoda. Ma tra gli elementi più curiosi vi sono i due personaggi che offrono l’agnello: si ipotizza che siano i committenti del quadro. L’abbigliamento dei personaggi rivelerebbe la loro agiatezza. Probabilmente la somiglianza tra i due è dovuta al fatto che sono fratelli, sono vestiti in maniera raffinata (vestiti orlati di pizzi, anello, le giubbe son da contadino ma braghe son molto decorate e fermate con un fiocco, quindi non si tratta ovviamente di contadini). Sono quindi forse i committenti, probabilmente i Conti Baglioni di Perugia, che si sono fatti rappresentare nella scena, hanno però bisogno di un intermediario, cioè gli angeli che poggiando le mani sulla loro schiena li introducono verso la scena della Madonna.
Il Cristo
Questo non sembra un Cristo vincente. È forse l’ultima opera del Moretto risalente al 1550, commissionato al pittore dalla Compagnia dei Custodi delle Sante Croci, quindi inizialmente custodita nel Duomo Vecchio e poi trasportata in Loggia, e infine in Pinacoteca. Con questo dipinto il Moretto si riallaccia al maestro, Foppa, soprattutto per il tema della luce, i toni sono grigi e perlacei. L’iconografia non è particolarmente diffusa, è un’iconografia nordica con Cristo seduto sul gradino che aspetta di essere crocifisso e ha in mano la canna del dileggio. Il vero protagonista dell’opera non è Cristo o l’angelo, ma la tunica. Questa occupa lo spazio centrale del quadro e verso di lei converge lo sguardo aiutato da tutto un sistema di linee diagonali, a partire dalla Croce, dalle gambe di Cristo, dalla canna e dalle pieghe stesse della tunica e anche dalla prospettiva che non è proprio frontale, ma leggermente accidentale. Quindi l’osservatore non è al centro della composizione ma è leggermente spostato. Perché la tunica? Nella versione greca dei Vangeli di San Giovanni si legge spesso la parola “meschisome”, vale a dire non dividiamola. Cioè non dividere la tunica. Se rileggiamo il passo del Vangelo si legge che quando Cristo viene crocifisso i soldati si vogliono spartire la tunica, ma si accorgono che è inconsutile, cioè tessuta in un’unica testa e non è cucita, se la strappassero la romperebbero. Allora decidono di giocarsela ai dadi. Questo significato che è molto forte nei Vangeli e nasconde un simbolo; la tunica diventa il simbolo dell’indivisibilità della chiesa. È un dono che viene dall’alto (infatti è portata da un angelo) e rappresenta l’unione della chiesa. Dobbiamo tener conto che siamo nel 1550, a cinque anni dall’inizio del Concilio di Trento, quindi in piena epoca controriformista. I componenti della Compagnia delle Sante Croci con questo quadro commissionano a Moretto un messaggio ottimistico per l’ambiente ecclesiastico bresciano.