C'era una volta il ghetto


La Mantova Ebraica

Mantova è stata una città ebraica di prim'ordine: oggi rimangono poche testimonianze della cultura ebraica a Mantova, ma è ancora possibile effettuare una passeggiata nella zona del ghetto alla ricerca delle ultime tracce rimaste. A Mantova la comunità ebraica prende vigore a metà del Cinquecento. Purtroppo oggi del ghetto di Mantova non resta quasi nulla: è rimasta solo una delle sei grosse sinagoghe che erano nell’area del vecchio ghetto. All’inizio nel ‘500 ce n’erano addirittura almeno 12. Perciò fu una comunità molto florida e numerosa.


Mantova ebraica: un po' di storia

I mantovani chiamavano le sinagoghe scholae, poichè erano luoghi di istruzione dove si imparava a leggere e scrivere. Infatti c’è una via che si chiama Via Scuola Grande a ricordo di una enorme sinagoga che si trovava ove ora sorge un hotel. La sinagoga grande fu l’ultima sinagoga demolita nel ghetto nel 1940. Le prime dodici che sappiamo esistevano nel Cinquecento furono distrutte ai tempi del sacco di Mantova ad opera dei Lanzichenecchi nel 1630. Ne risorgeranno sei. 

Ad inizio Novecento l'amministrazione comunale si rende conto che tutta questa enorme area del ghetto, che ormai viveva da due secoli e mezzo con gli ebrei reclusi, era ingestibile ed invivibile anche dal punto di vista igienico e decide di fare piazza pulita. Al posto delle vecchie case del ghetto nascono la Banca d’Italia, la Camera di Commercio, il Consorzio di Bonifica. Erano edifici di una certa imponenza che servivano per dare lustro a Mantova.

Alcune case avrebbero potuto essere restaurate, erano dotate di cortiletti e scalette molto graziose, ma l'abitudine dell'epoca era quella di demolire tutto e ricostruie ex novo. Quindi del ghetto originario non resta quasi nulla, se non i volumi, cioè le case di oggi occupano esattamente il volume occupato dal vecchio ghetto. Contemporaneamente sono scomparse anche le sinagoghe. Quelle antiche erano edificate all’interno di edifici civili, per evitare invidie o vandalismo da parte del popolino.


Una passeggiata dentro la Mantova ebraica

Si parte dalla Rotonda di San Lorenzo, che ai tempi del ghetto era sconsacrata, trasformata in magazzino per lo stoccaggio del carbone, della legna e delle mercanzie. Da qui si entrava nel ghetto attraverso un portone. Il chiavàro era l’unica persona cristiana che poteva risiedere qui e aveva il compito di aprire io cancelli all’alba e chiuderli alla sera. All'epoca c’erano delle case che si appoggiavano alla Rotonda: dovremmo immaginare che fossero delle casupole con ballatoi, passaggi da un appartamento all’altro, porte di collegamento. Quasi ovunque nel ghetto c’era la coabitazione, dentro in case a due piani, e in genere malandate.

Solitamente si passava da una casa all’altra senza scendere in strada, un modo per stare più in sicurezza. Il ghetto non era un’area circondata da fortificazioni, ma con delle case realizzate così adiacenti tra di loro si realizzava un recinto all’interno del quale gli ebrei dovevano stare. Si trattava di circa 480 famiglie in un’area ristretta e con una media di 5 / 6 persone per famiglia; si arrivò a contare 2000 persone. Le case venivano sopraelevate senza piano regolatore, in legno, e senza sicurezza. 


Ecco altre zone che si potranno visitare durante la passeggiata per la Mantova ebraica. 


Via Calvi: le case di confine del ghetto erano alte tre piani, avevano sempre le finestrelle per i granai. I volumi e le aperture son quelli delle vecchie case. Era detta la contrada del Cammello. Tra via Spagnoli e via Calvi c’era l’altro portone d'accesso all’altezza del Mercato Granario. Gli orefici ebrei facevano rosari, madonnine, crocefissi che servivano per i pellegrini che andavano in S. Andrea. Vendevano oggetti sacri apprezzati dai cristiani perché fatti in modo più aggraziato. Il terzo portone si trovava alla fine di Via dei Giustiziati. E poi ve ne era anche un quarto. 


Casa del Rabbino: è un edificio con una sua certa eleganza. Di ebraico oggi non c’è più nulla. Sono presenti però degli stucchi in facciata che ricordano delle città ideali. Fu abitato da ebrei nel Settecento. 

Piazza Bertazzolo / Via Norsa: qui troviamo balconcini con porte-finestre in stile sefardita (spagnolo) per dare più aria agli ambienti interni. Sullo stipide di una porta si vede il segno del mesuzà, che vuol dire stipite. Seconda l’usanza ebraica si mette un piccolo astuccio (in argento, avorio, vetro) ovvero un contenitore in cui viene messo un piccolo brano del Deuteronomio, piegato come un rotolino, e questa mesuzà viene messa sullo stipite della porta. Gli ortodossi lo mettono non solo sullo stipite della porta d’ingresso della casa, ma in tutte le porte della casa. Era messo bene in vista, e lo si sfiora quando si esce, chiedendo la protezione divina; lo si tocca quando si rientra, in segno di ringraziamento. 

Piazza Sermide: qui troviamo case alte con finestre a porta, sopra alle quali c'erano degli ampi granai, che spesso andavano a fuoco perché c’erano le cappe dei camini che col calore provocavano incendi. Nelle cantine allevavano pollame, oche e animali domestici. C’era un servizio antincendio perfetto, i pompieri erano i portatori di vino casher, fatto secondo il rito ebraico.

Sinagoga Norsa Torrazzo

è  tutta originale nel suo decoro interno e nella volumetria, anche se fu tagliata a pezzi e rifatta esattamente come era. Quello che colpisce entrando è la grande luce, considerata simbolo di vita, utile soprattutto perché si leggeva e studiava. La sinagoga di oggi è al piano terra, ma quella originale era nella parte alta di un edificio civile (ex Banca d'Italia). Lo studio avveniva con un Rabbino (nostro maestro), che legge in ebraico biblico antico, unica lingua parlata in sinagoga. La lettura viene fatta in ebraico, poi il Rabbino spiegava i passi in italiano, ma occorre sapere l’ebraico per capire, perciò i bambini devono studiarlo. In alto c’è un medaglione che è una dedica alla famiglia Norsa: le lettere dell’alfabeto ebraico son fatte da 22 consonanti (non esistono le vocali nell’alfabeto ebraico) e le lettere fanno anche da numero. Perciò lassù la data 1751 è scritta da quattro simboli con un pallino sopra che indica che la parola è un numero. 
Altra caratteristica di una sinagoga è la totale assenza di colori, di dipinti, di immagini perché per la tradizione ebraica è impossibile rappresentare in modo corretto la divinità. E perciò si cerca di abbellire con fregi e decorazioni varie. Le donne non entrano nella sala principale, ma salgono nel matroneo e da lì seguono la funzione, che viene svolta solo dagli uomini. Servono almeno 10 ebrei maschi adulti. La donna come compito principale ha l’educazione dei figli. A casa comanda la moglie e il rabbino esegue. In sinagoga il rabbino esegue la funzione e la donna ascolta. I ganci che si vedono sorreggevano lampade, creavano un recinto all’interno del quale si immaginava la presenza divina. La Sinagoga era un luogo di studio, ma anche di discussione. Si decideva chi eleggere come Presidente, come Consiglieri, si discuteva di tutto.
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