L'arte e l'alchimia a Mantova

Lettura alchemica di alcune opere mantovane

La Mantova Alchemica


All'interno della Camera degli Sposi, chiamata nelle cronache antiche Camera Picta, cioè camera dipinta, stanza collocata nel torrione nord-est del Castello di San Giorgio di Mantova, si trova un famoso ciclo di affreschi che ricopre le sue pareti. Questa opera è considerata il capolavoro del trentaquattrenne Andrea Mantegna, pittore della corte dei Gonzaga dal 1460 e fu da lui realizzata tra il 1465 e il 1474. L'indagine rivela che a quelli che sono i simboli tradizionali e araldici, Mantegna sovrappone un ulteriore valore semantico, attraverso l'uso della simbologia alchemica, che sovente utilizzò in diverse altre sue opere. 

L’ambiente, di forma quasi cubica, era utilizzato sia come sala delle udienze che come stanza in cui il Marchese Ludovico si riuniva coi propri familiari. Ludovico II Gonzaga conosciuto anche come Ludovico III fu Marchese di Mantova dal 1444 e lo rimase sino all’età di 66 anni, quando essendosi contagiato, morì durante l’epidemia di peste del 1478. Era detto il Turco perché fu favorevole per la crociata contro gli Ottomani per liberare Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, da essi conquistata nel 1453. Crociata che era stata proposta da Pio II nel Concilio del 1459 tenutosi appunto a Mantova. 
Ludovico II fu l’esponente più ragguardevole della famiglia, e sotto la sua Signoria Mantova divenne una delle Capitali del Rinascimento italiano. Anche Piero della Francesca lo raffigurò nella celeberrima Flagellazione di Cristo ricordando quell’evento. 
Le pareti mostrano due episodi importantissimi per la casata dei Gonzaga, tra loro collegati: la scena della corte e quella dell’incontro. 





SCENA DELLA CORTE

Nella scena della corte assistiamo a un momento di vita familiare dei Gonzaga; Mantegna, partendo dalla richiesta dei suoi committenti di celebrare la dinastia dei Gonzaga, realizzò i ritratti dei componenti della famiglia e arricchì l’opera di numerosi dettagli simbolici, sia di natura araldica, che mitologica e infine alchemica. 
La scena della corte è tripartita e mostra il Marchese Ludovico e sua moglie Barbara seduti sui loro scranni durante l’avvenuta comunicazione, mediante una lettera che il Marchese tiene in mano, della nomina cardinalizia di Francesco, all’epoca diciassettenne. Il Marchese è di tre quarti e si volge all’indietro verso il suo segretario, riconosciuto come Marsilio Andreasi. Alle sue spalle, vestito in nero, vediamo Vittorino da Feltre, istruttore dei suoi figli. Dietro di lui, in piedi, vi è il terzogenito Gianfrancesco, che tiene le mani sulle spalle del fratellino Ludovico, che diverrà Vescovo di Mantova. In posizione frontale siede Barbara, la moglie di Ludovico, Marchesa di Mantova. Barbara di Brandeburgo, nipote dell’Imperato del Sacro Romano Impero, Sigismondo di Lussemburgo, era una donna intelligentissima, che aveva studiato alla scuola di Vittorino da Feltre dopo essere arrivata a Mantova a soli 11 anni per sposare Ludovico, all’epoca diciannovenne. La Marchesa di Mantova conosceva quattro lingue e fu un’esperta di letteratura. Suo padre Giovanni era stato per tutta la vita più interessato ai segreti dell’alchimia che agli affari di corte, e per questo motivo era conosciuto col soprannome di “l’alchimista”. 
Non è quindi da escludere, insieme all’influenza di Vittorino da Feltre, anche quella della Marchesa nella realizzazione della simbologia inserita nell’opera. Dietro di lei sta in piedi l’ottavo figlio, Rodolfo, che morirà nella battaglia di Fornovo. E alle sue spalle, a destra, si trova Barbara, la bella di famiglia, unica tra le figlie a non avere la tara genetica dei Gonzaga, la gobba, e che andrà sposa al Barbuto, ovvero Eberardo V di Württenberg. 
Sua nonna paterna, Paola Malatesta, che sta alle sue spalle, aveva infatti portato in dote alla dinastia dei Marchesi di Mantova non solo intelligenza e ricchezza, ma anche la tara genetica della gobba, che divenne elemento ereditario di casa Gonzaga. 
Sulle ginocchia di Barbara di appoggia Paola, che regge in mano una mela, e ha una coroncina tra i capelli. È l’ultimogenita, nata quando la Marchesa Barbara aveva 41 anni. Anche lei, come le sue sorelle, Cecilia, Susanna e Dorotea fu affetta dalla cifosi. Le tre ragazze dopo essere state promesse in matrimonio ai nobili del tempo furono costrette, per la loro patologia, a ritirarsi in convento. Paola invece si sposerà con il Conte Leonardi di Gorizia, uomo definito alquanto rozzo. 
Accanto a Barbara, sull’altro lato, appare la nana Lucia, dama di compagnia che giarda fuori dalla scena e svolge la funzione di festaiuolo. Nei drammi sacri che venivano rappresentati durante il Medioevo e il Rinascimento vi era spesso un attore, una figura corale detto il festaiuolo e talvolta impersonato da un angelo che restava sulla scena durante lo svolgimento dello spettacolo e fungeva da tramite tra il pubblico e le vicende rappresentate, spiegando cosa stesse accadendo e attirando l’attenzione degli spettatori su qualche elemento particolarmente significativo della recita. Queste figure venivano usate anche dai pittori, addirittura le troviamo consigliate dall’Alberti nel suo Trattato. 
In questa composizione artistica ritroviamo in Lucia che guarda verso l’osservatore la figura del festaiuolo, che ha qui il compito di richiamare la nostra attenzione concentrandola sulla scena. In piedi, con guanto in mano, vi è un cortigiano di cui non conosciamo l’identità. Vi è poi un corteo di 7 altri cortigiani che si avvicinano alla famiglia; si riconoscono come cortigiani di casa Gonzaga dal colore araldico delle loro braghe, una bianca e l’altra rossa. Nella scena della corte sono presenti 21 personaggi in tutto. Sotto lo scranno del Marchese ritroviamo Rubino, il cane preferito di Ludovico II, simbolo di lealtà e fedeltà, caratteristiche molto apprezzate dal padrone di casa Ludovico Gonzaga. 
Alle spalle del gruppo appaiono due aranci e una balaustra in marmo che divide la corte dall’esterno, dove si staglia un albero, sormontato da festoni adornati da mele cotogne, uno dei tesori gastronomici di Mantova, ben conosciuta per la produzione di confetture e mostarde, amate anche dallo stesso Mantegna, che ne aveva una personale produzione. 
La mela è simbolo da un lato di prosperità, di fecondità per i Romani, simbolo di immortalità nella leggenda del giardino del Pomo delle Esperidi. Presso gli Antichi romani rappresentava inoltre il globo terrestre, per questa ragione una mela d’oro era posta sulla sommità dello scettro degli Imperatori. A causa della sua forma sferica e della presenza al suo interno dei semi della vita la mela simboleggiava quindi il cosmo e il potere imperiale. Da questa tradizione nelle apparizioni pubbliche infatti gli Imperatori del Sacro Romano Impero reggevano con la mano destra lo scettro, e con la sinistra la mela d’oro, allegoria del potere. 
La mela cotogna era considerata sacra a Venere e veniva chiamata in greco chrisomelon, ovvero mela d’oro, simbolo d’amore e di fertilità. 
A quelli che sono i simboli tradizionali e araldici Mantegna sovrappone un ulteriore valore semantico attraverso l’uso della simbologia alchemica, che sovente utilizzò in diverse altre sue opere. Occorre tenere presente che l’alchimia, lungi dall’essere considerata una pratica di stregoneria, era una disciplina tenuta in altissima considerazione fra le menti colte contemporanee al Mantegna, come l’amico fraterno umanista e alchimista Felice Feliciano, che probabilmente influenzò parecchie scelte concettuali nella sua arte. 
Gli alchimisti credevano che vi fosse un ordine nell’universo nascosto in ogni elemento fisico e spirituale, e che la materia si trovasse a diversi livelli di imperfezione; il compito dell’alchimista era purificarla, e ottenere la perfezione della materia e dello spirito umano. 

  • Partendo quindi dal significato alchemico della mela, essa era il simbolo dell’oro filosofico. 
  • I 7 cortigiani che salgono le scale verso la famiglia rappresentano i metalli simbolici del percorso di trasmutazione alchemica, cioè piombo, ferro, stagno, rame, mercurio, argento e oro. 
  • Le vesti della Corte Gonzaga rimandano ai 3 colori delle fasi principali della Grande Opera: nigredo, albedo e rubedo, e quindi nero, bianco e rosso. Con profusione di oro, ovvio riferimento all’oro filosofico. 
  • Nella scena della corte vediamo 21 personaggi. Il numero 21 in quanto prodotto dei numeri 3, come le principali fasi della Grande Opera, e 7, come i sette metalli legati ai 7 astri (Sole, Luna, Venere, Giove, Mercurio, Marte e Saturno) era considerato numero della perfezione alchemica. 
  • Il cane sotto lo scranno di Ludovico è simbolo dello zolfo, oppure dell’oro. 
  • La corona sul capo dell’ultimogenita è simbolo della regalità chimica, della perfezione metallica. 
  • La presenza dei 2 sposi, il Marchese Ludovico e Barbara, rimanda al concetto delle nozze alchemiche, e rappresenta quindi l’unione del principio maschile e quello femminile, quindi degli elementi fissi e di quelli volatili, di zolfo e mercurio, unione di oro e argento. 
  • Anche la donna nana ha un chiaro significato alchemico; si riferisce infatti al concetto di homunculus, una leggendaria forma di vita creata attraverso l’alchimia già ampiamente nota dal XIV secolo. L’idea che persone in miniatura, completamente formate, possano essere create dall’uomo risale all’Alto Medioevo. 
  • La spada è simbolo del fuoco alchemico, elemento indispensabile per la trasmutazione
  • Mentre il guanto bianco è simbolo della purezza morale dell’alchimista, elemento indispensabile per procedere con la Grande Opera. 
  • Gli alberi di aranci e mele cotogne rimandano all’albero alchemico, che se porta delle lune significa il piccolo magistero, la pietra al bianco, se porta dei soli è la Grande Opera, la pietra al rosso. 
  • Alle spalle della Corte la balaustra di marmo è adornata di cerchi con intarsio centrale circolare, che rimanda al simbolo alchemico del Sole, quindi all’oro filosofico. 
  • Mantegna offrì come elemento interpretativo anche la medesima cifosi, tara genetica dei Gonzaga, in quanto essa rimanda alla figura archetipica dell’eremita, ovvero di colui che possiede la conoscenza del passato, e il compito del tramandarlo, con percorso lento ma costante, raffigurato anche nei Tarocchi con la postura gobba, e che rappresenta l’osservazione, la ricerca e la comprensione, e di conseguenza la Sapienza e l’ascesa spirituale, tanto desiderata da ogni alchimista. 
Il messaggio velato agli occhi dei non adepti, ma chiaramente interpretabile dalle persone colte al tempo di Mantegna è quindi che alla Corte di Mantova i Gonzaga sono progenie di saggezza, intenti al conseguimento continuo della perfezione mediante la saggia regolamentazione e unione dei principi opposti che animano il loro popolo. Attraverso la loro saggezza, si raggiunge quindi la felicità dei sudditi e dei Signori, che si perfezionano ogni giorno di più e che giungono perciò a una pienezza spirituale e materiale, all’oro filosofico e alla perfezione alchemica. 






SCENA DELL’INCONTRO

La scena mostra l’incontro tra Ludovico II e il suo secondogenito Francesco, che aveva appena ottenuto la commenda del Monastero di Sant’Andrea, la più grande chiesa di Mantova, ristrutturata definitivamente a partire dal 1472, su progetto di leon Battista Alberti, proprio su commissione del Signore di Mantova Ludovico II Gonzaga e di suo figlio, il Cardinale Francesco, che voleva farne un simbolo del proprio potere sulla città e di prestigio della casata. Lo scopo della costruzione ella l’accoglienza dei pellegrini che giungevano durante la festa dell’Ascensione, durante la quale veniva venerata una fiala contenente il Sangue di Cristo, portato a Mantova, secondo la tradizione, dal centurione Longino. Anche la scena dell’incontro è tripartita, oltre che per motivi prospettici e pratici, anche per alludere alle 3 principali fasi alchemiche. La scena è dominata dalla presenza del cavallo di Ludovico, decorato con le insegne del sole raggiante e inserito nella falce di luna. Il sole rappresenta il principio maschile, fisso, quindi l’oro, oppure lo zolfo, la luna il principio femminile, volatile, quindi l’argento, oppure il mercurio. Perciò la bardatura del cavallo intende alludere al piccolo magistero, la pietra al bianco, e alla Grande Opera, la pietra al rosso. 
Attraverso il loro esperimenti gli alchimisti scoprirono che il Mercurio poteva combinarsi con lo zolfo attraverso l’intermediazione del sale. In base al tipo e alle proporzioni di questi 3 componenti si pensava che in natura si verificasse una maggiore o minore solidificazione dell’etere, da cui si originavano così i quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. Quindi Mercurio, Zolfo e Sale rappresentavano per gli alchimisti anima, spirito e materia e dovevano essere trasfigurati in nuovi elementi. Scopo dell’alchimia era di sciogliere questi elementi tramite distillazione, riportandoli ai loro ingredienti originari per poi ricombinarli in una forma più pura. Era il principio del SOLVE ET COAGULA. 
Sulla parete sono visibili i 4 servitori, simbolo dei 4 elementi naturali secondo gli antichi (terra, acqua, aria e fuoco), e ci rimane solo la mano di un quinto personaggio, che rimane nascosto dietro a un tendaggio, allusione alla quintessenza: l’etere, sostanza misteriosa, detta anche quinto elemento o quintessenza in latino, per Aristotele era il quinto elemento che si andava a sommare ai quattro elementi principali completandoli. Gli alchimisti indicavano con essa la forza vitale dei corpi, una sorta di elisir di lunga vita, che era l’essenza alchemica ottenuta alla fine di 5 distillazioni. I quattro personaggi tengono a bada quattro cani uniti a coppie, che rimandano ai concetti degli elementi fissi e a quelli volatili, quindi anche ad acqua e aria, e a terra e a fuoco. Vi è poi un quinto cane, trasversale e seminascosto dal pilastro, che allude ancora una volta alla quintessenza, l’etere. 
Dietro di loro vediamo un paesaggio lontano, con due alture sormontate da costruzioni: la montagna è il simbolo alchemico del fornello dei filosofi, l’Atanor, sommità del luogo filosofico. Sullo sfondo si vedono anche due castelli, che rappresentano in alchimia il palazzo del Re e il palazzo della Regina. Nel primo caso simboleggia l’accesso all’Oro filosofico, nel secondo l’accesso al Mercurio filosofico. 
Interessante la costruzione sulla terza altura, che ha una forma cubica, proprio come la stanza all’interno della quale si trova il ciclo di affreschi e che ricorda un forno alchemico, un Atanor. 
Intorno ai personaggi vediamo alberi di aranci, nel settore centrale, in alto, 9 puttini reggono una targa dorata con la dedica di Mantegna ai Gonzaga. 
ILL LODOVICO II M.M. / PRINCIPI OPTIMO AC FIDE INVICTISSIMO / ET ILL. BARBARAE EJUS / CONIVGI MVLIERIVM GLOR. / INCOMPARABILI / SVVS ANDREAS MANTINIA / PATAVUS OPUS HOC TENVE / AD EORV DECVS ASBOLVIT / ANNO MXXXXIXXIIII
“All’illustrissimo Ludovico, secondo marchese di Mantova, principe ottimo e di fede ineguagliata, e all’illustre Barbara, sua consorte, incomparabile gloria delle donne; il loro Andrea Mantegna, padovano, compì la presente modesta opera in onore loro l’anno 1474”.
La denominazione di Camera Picta è dovuta alla decorazione integrale di soffitto e pareti dell'ambiente, realizzata con tecnica mista ad affresco e a tempera. La presenza di una targa sulla parete ovest, dove Andrea Mantegna dedica la propria tenue opera ("opus hoc tenve") ai marchesi, nonché committenti e sposi, Ludovico II Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, giustifica il noto appellativo di Camera degli Sposi.
  • Mantegna parla della TENVS OPUS alludendo per antitesi alla MAGNUM OPUS, percorso alchemico di lavorazione e trasformazione dei metalli, finalizzato a realizzare la pietra filosofale, i 9 putti simboleggiano le 9 operazioni alchemiche: calcinazione, putrefazione, soluzione, distillazione, sublimazione, unione, fissazione, moltiplicazione e trasmutazione. 
  • Uno di essi porta una verga, che rimanda al bastone tenuto in mano dall’archetipo dell’eremita, riportato anche nei Tarocchi, co, quale capta le energie istintive dell’universo, che egli deve con la ragione sottomettere, controllare perché non divengano distruttive. 
  • Nel terzo scomparto seguiamo i protagonisti dell’incontro: appare innanzitutto Ludovico con accanto Ugolotto Gonzaga, figlio del fratello defunto Carlo. 
  • Il figlio Francesco in abiti cardinalizi di fronte a lui tiene per mano il fratello minore Ludovico, che era già parso bambino nella scena della Corte, che a sua volta la porge a Sigismondo, figlio di Federico I. il gesto di tenersi per mano rappresenta l’appartenenza al ramo della famiglia destinato al cursus ecclesiastico. Il significato alchemico è invece riferito alle 3 fasi principali della Grande Opera tra loro collegate: la nigredo, l’albedo e la rubedo. 
Accanto al nonno Ludovico Gonzaga vediamo il piccolo Francesco, che succederà al padre Federico. Il ragazzo, vestito con abito regale e incoronato simboleggia la pietra filosofale. Francesco II Gonzaga fu Signore di Mantova dal 1484 al 1519, e divenne marito di Isabella d’Este, a cui era stato promesso in sposo quando era ancora un ragazzo. Si sposarono il 12 febbraio 1490, quando lui aveva 24 anni e Isabella 16. Durante il suo regno, grazie anche alla moglie isabella, Mantova visse un periodo di splendore. Per loro il Mantegna realizzerà il Parnaso nel 1497. Suo padre, Federico, sarebbe salito al potere il 14 giugno 1478, tre giorni dopo la morte per peste del padre ed è ritratto accanto a due personaggi, uno di fronte all’altro in secondo piano, che dovrebbero essere Cristiano I di Danimarca, parente di sua madre, e Federico III d’Asburgo, personaggio importante per il vanto della famiglia per la parentela regale. Lo vediamo col mantello gettato sulle spalle in modo da camuffare i suoi problemi di cifosi, marchio ereditario dei Gonzaga. 

  • Anche in questa scena appare un cane, un lagotto di Romagna, ai piedi di Ludovico. Simbolo di fedeltà e dal punto di vista alchemico di oro filosofico. I colori predominanti nelle vesti si riferiscono stavolta agli elementi alchemici principali per la trasformazione della materia, cioè il mercurio, simboleggiato dal blu, lo zolfo dal rosso, e il sale dal bianco. 
  • Il colore oro è riferito come al solito all’oro filosofico. 
  • La spada al fianco di Ludovico è simbolo del fuoco. 
Sullo sfondo è rappresentata una veduta ideale di Roma, in cui riconosciamo Castel Sant’Angelo, la piramide Cestia, il Colosseo, il teatro di Marcello, le mura aureliane e il ponte nomentano, oltre a elementi di fantasia, come l’enorme statua che probabilmente vuole rievocare il colosso che sorgeva durante il periodo romano accanto al Colosseo. 
La presenza di Roma sullo sfondo simboleggia il legame tra la dinastia Gonzaga e Roma e probabilmente intendeva essere di buono auspicio per il cardinale Francesco, quale possibile futuro Papa. 






OCULO

Al centro della volta si trova il famoso oculo che ricorda quello del Pantheon, intorno vediamo una balaustra circolare dalla quale si affacciano un pavone, 5 figure femminili, una delle quali di colore, e 10 putti alati. 
  • Le 5 giovani sono alchemicamente assimilabili alle 3 fasi alchemiche principali, nigredo, albedo e rubedo, più le due fasi intermedie, virilitas e citrinitas. La giovane donna nera è infatti un tipo stratagemma artistico per alludere all’etiope alchemico, ovvero il principio della nigredo, prima fase dell’Opera che tratta la materia grezza. 
  • I 10 putti simboleggiano le 10 sublimazioni della materia nel processo alchemico, e rimandano inoltre al numero pitagorico della perfezione, oltre a quello che indica la perfetta conoscenza del mondo, sia quello interiore che quello esteriore. 
  • I loro genitali sono allusione all’aludel, un apparecchio composto da alambicchi, vasi sovrapposti e comunicanti tra loro, per effettuare una sublimazione lenta. 
  • Il pavone evoca la fase definita cauda pavonis, cioè il momento della grande opera in cui appaiono molti colori. La maggior parte degli alchimisti colloca questa fase prima dell’albedo. 
  • Il vaso che contiene l’alberello è simbolo del vaso filosofico alchemico, detto anche vaso ermetico, costituito essenzialmente dall’alambicco, recipiente delle sostanze che devono subire il processo trasmutatorio per la realizzazione della pietra filosofale. 
  • Due puttini tengono in mano una canna, simbolo semplificato del caduceo, il bastone della sapienza, esibito come simbolo per dirimere le liti, poiché tale bastone era la manifestazione fisica dell’equilibrio che doveva esserci in tutte le cose, ed è anche un riferimento al bastone tenuto in mano dall’archetipo dell’eremita, ricordato anche nei tarocchi, col quale capta le energie istintive dell’universo, che egli deve sottomettere e controllare con la ragione per evitare che divengano distruttive. 
  • La mela rossa in mano a uno di loro è simbolo della pietra filosofale ottenuta. 
  • Uno putto ha in testa una corona, simbolo della regalità chimica, della perfezione metallica. 
  • Il pettine in mano alla ragazza si rifà a un antico simbolo che rappresenta la nube con segni di pioggia. Questo simbolo a forma di pettine era utilizzato nelle comunità agricole come propiziatorio della fertilità dei campi. 
  • Le nuvole sono un rimando agli elementi volatili della materia. Curiosa la rappresentazione all’interno della nuvola di un profilo umano. 
  • I medesimi puttini, assimilabili al concetto di angelo, simboleggiano la sublimazione, l’ascensione di un principio volatile, così come indicato nelle figure del Viatorum Spagiricum, importante testo di alchimia. 
  • La ghirlanda di frutti policromi, oltre a essere tipico simbolo di abbondanza, rimanda ai vari colori delle fasi del processo alchemico, e le mele cotogne sono segno dell’oro alchemico. 


prenota la tua visita
Torna su